ETF fixed income U.S. : si cambia ma senza strappi
E' trascorso quasi un decennio dallo scoppio della crisi del credito, durante la quale si assistette ad un completo blocco del mercato OTC dei bond, arrivato fino a subire una contrazione dei volumi che, nel caso dei segmento corporate , raggiunse addirittura il 50%, causata , tra le altre cose, dalla scarsa liquidità disponibile su un mercato oltretutto basato su negoziazioni opache, bilaterali e poco standardizzate. Insomma, finita la pacchia delle ABS e dei CDO, negoziare bond era diventato un problema e, come spesso accade, è proprio in queste situazioni che il mercato genera un’evoluzione. L’alternativa, in questo caso, fu il massiccio ricorso degli istituzionali agli ETF obbligazionari fixed income mentre la naturale conseguenza di questo cambiamento si estrinsecò, negli anni a venire, nella democratizzazione del mercato del debito quotato ossia nell’impiego del mercato borsistico degli ETF tanto da parte del ratail quanto degli istituzionali con reciproco beneficio in termini di liquidità. La SEC, nel 2007, aveva appena standardizzato le linee guida per la quotazione di questi strumenti (che ormai erano presenti in borsa dal 2002),ma, già nel periodo che va dal 2009 al 2012, il mercato degli ETF fixed income registrava, secondo dati Bloomberg, un incremento nei volumi di trading di addirittura 10 volte, a conferma del fatto che il cambiamento avvenuto nel mercato dei bond era strutturale e non temporaneo: nonostante il sistema stesse uscendo in quegli anni dalla crisi del credito, si rilevava infatti la persistenza di una forte crescita degli asset investiti in ETF obbligazionari a tasso fisso rispetto ad alternative tradizionali. La scoperta che gli ETF fixed income potessero aiutare gli operatori a gestire l’esposizione tramite un canale borsistico trasparente in prezzo e liquidità (non poca cosa soprattutto per chi aveva a lungo goduto della versatilità di ABS e CDO e si era trovato negli ultimi anni a temere anche solo di dover dare un prezzo a questi strumenti….) e che la loro natura consentisse anche di esporsi ad un’altissima varietà di mercati obbligazionari secondo le diverse esigenze, furono evidenze che convinsero gli istituzionali a considerare i fixed income ETF un’alternativa concreta agli altri canali anche se ormai ripristinati. Non potevano soddisfare tale varietà di sottostanti le negoziazioni di futures e neppure gli swaps che presentavano evidenti rischi di controparte assenti invece nei bond ETF (fisici o ottimizzati). Con l’aumento dei tassi operato dalla Fed negli ultimi mesi finisce però un decennio favorevole a questi strumenti e ne inizia uno denso di cambiamenti, oggi negli Stati Uniti, il prossimo anno, forse, anche nel vecchio continente.
In pochi mesi, siamo infatti passati dall’elezione a sorpresa di Trump e dall’entusiasmo delle borse, ad una condizione di moderata incertezza sulla fattibilità del programma di rilancio dell’’economia americana nei tempi prestabiliti, accompagnato, però, da un rialzo dei tassi da parte della Fed cauto ma “come da programma”.
Si tratta quindi, almeno in questa prima fase, di una situazione atipica basata su equilibri molto delicati che presuppongono da parte dell’investitore un buon grado di cautela nel rivedere le proprie scelte di investimento per quanto riguarda la componete obbligazionaria del portafoglio, specialmente quella fixed income.
In un ottica di più lungo periodo, la crescita del settore fixed income nei i prossimi 10 anni è tutt’altro che compromessa e il ricorso a questi strumenti dovrebbe crescere fino addirittura ad un valore, che iShares quantifica in 1 trilione di dollari. A spingere il ricorso a tali strumenti anche in un periodo di tassi in ascesa dovrebbe essere in primis la ricerca di flussi stabili, diretta conseguenza di cambiamenti demografici come l’invecchiamento globale della popolazione nei paesi avanzati. A motivare questa esigenza sarebbero tanto una minore propensione al rischio e alla movimentazione del portafoglio quanto il sempre maggior ricorso a sistemi pensionistici integrativi. Oltretutto, benché sia poco probabile un aumento a breve degli investimenti in ETF sul reddito fisso, è anche vero che gli ETF rappresentano un’alternativa e , ad oggi, solo una piccola parte del capitale allocato in fondi comuni o bond singoli quotati e che pertanto esistono amplissimi margini di crescita sottraendo quote di mercato alle forme più classiche di investimento in bond. Bloomberg stima attualmente il tasso di penetrazione degli ETF fixed income sul valore complessivo delle allocazioni obbligazionarie globali in 0.3% (rispetto al 2.2% del’equity nel proprio undelying sector) il 5% di quanto attualmente allocato in bond funds a gestione attiva. Anche banche e assicurazioni continueranno ad impiegare ETF fixed income per ottimizzare i loro balance sheets in modo più rapido, efficiente e meno rischioso di quanto non sia possibile con strumenti OTC.
In un'ottica di breve e brevissimo termine, neppure l’investitore retail dovrebbe penalizzare l’allocazione obbligazionaria in quanto basilare componente di un portafoglio equilibrato, specialmente con tutte le variabili politiche e non che ancora pesano sulla ripresa.
E' bene pertanto reagire al cambiamento senza però anticipare i tempi. Oltre a giovarci di mercati obbligazionari che scontano ampiamente i rialzi FED, è indicato scegliere prodotti corporate ottimizzando il rapporto rischio rendimento e i minimizzare l’impatto di un rialzo dei tassi con una duration ridotta (andando ad investire su portafogli con maturity ridotte o duration hedged). In tal senso, Barclays ci propone un interessante confronto tra la performance total return e price return su Barclays U.S. 1-3 Year Credit Bond da giugno 2004 a giugno 2006, ossia durante l’ultimo ciclo di rialzi dei tassi d’interesse in USA: l’indice , senza considerare le spese, ha coperto le perdite sul prezzo dei bond in portafoglio grazie ai flussi ottenendo infine anche rendimenti positivi. Ferma restando in generale la comodità di scegliere ETF con maturity più contenute e quindi meno reattivi a variazioni nei tassi, volendo puntare su maturity più estese, i prodotti duration hedged come UBS ETF (LU) Barclays US Liquid Corporates interest rate hedged UCITS ETF (USD) costituiscono un’alternativa: questo ETF propone un’allocazione che mira a replicare l’Indice Barclays US Liquid Corporates (TR) formato da 500 emissioni corporate a stelle e strisce ad alto standing creditizio ottenendo un’attenuazione del rischio tasso tramite la sottrazione della performance di una posizione in futures sui treasuries. Il TER ammonta allo 0.23% la vita residua media dei titoli in portafoglio, appunto coperta, è di 11.68 anni. Per chi invece non vuole rinunciare all’high yield e ai suoi rischi, iShares $ Short Duration High Yield Corporate Bond UCITS ETF replica il Markit iBoxx USD Liquid High Yield 0-5 Capped Index che propone un’esposizione all’87% sugli Stati Uniti a fronte di una vita residua dei titoli in portafoglio di 2.45 anni. Il TER di questo ETF ammonta a 0.45%.
L'accesso al tasso variabile non è comunque da escudersi ad esempio con Amundi ETF Floating Rate USD Corporate UCITS ETF replicante anch'esso fisico, come i precedenti, dell’indice Markit iBoxx USD Liquid FRN Corporates 100. Questo ETF, a fronte di spese di gestione pari al 0.20%, consente agli investitori di beneficiare di un’esposizione ad un insieme di obbligazioni a tasso variabile, presenti in un numero compreso tra 40 e 100, denominate in USD ed emesse da società private (“corporates”) di paesi sviluppati con gli Stati Uniti presenti al 64%. La maturity è 100% di breve termine (1 anno), il credit rating investment grade.
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