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Emanuele L. Basso Ricci

Bond Connect ed ETF Connect: le grandi potenzialità della Cina continentale ancora più accessibili,


Era in programma per luglio, in occasione delle celebrazioni per il ventennale del passaggio di Hong Kong dalla dominazione inglese allo statuto di regione amministrativa speciale della Cina, e, come abbiamo avuto modo di apprezzare sia in termini di raggiungimento di obbiettivi di crescita quanto del rispetto degli impegni presi in altri contesti (come ad esempio in termini di investimenti su temi ambientali), quando a Pechino decidono di fare qualcosa, lo portano a termine nei tempi e nei modi descritti ( soprattutto se si tratta di qualcosa di vitale per la propria economia). Dopo l’apertura degli indici mondiali (in primis MSCI) al mercato delle A shares della Cina continentale via Stock Connect, l’asse finanziario Pechino Hong Kong si allarga ora al mercato obbligazionario facilitando ulteriormente l’accesso degli investitori esteri anche a quello che oggi è, con circa 10000 miliardi di dollari di valore, il terzo mercato obbligazionario globale dopo quelli di Stati Uniti e Giappone. Ci riferiamo al debito governativo (e delle Policy Banks controllate al 100% dallo stato), a quello corporate statalizzato e a quello di commercial banks e compagnie assicurative, queste ultime solo in parte controllate dalla Repubblica Popolare. Diversamente da quanto accade con l’equity, questo mercato è quasi completamente OTC con solo il 10% dei bond negoziato su borsa: gli investitori esteri, in sostanza, non si incontreranno sulla borsa come accade con lo Stock Connect ma negozieranno invece con un’entità locale verso la quale saranno esposti in termini di rischio di controparte.Quest’ultima attualmente evidenzia un merito di credito che le agenzie di rating individuano come addirittura superiore a quello della Repubblica Popolare stessa e pari a S&P AAA Moody’s Aa2 Fitch AA+. Il Bond Connect rappresenta l’ultimo tassello di un percorso poliennale iniziato nel 2002 con il QFII, continuato nel 2011 con il RQFII e intensificatosi nel 2016 con l’apertura, a determinati investitori istituzionali stranieri, del China Interbank Bond Market (CIBM), fino ad arrivare, in questo 2017, all’inclusione di questi bond negli indici Bloomberg Barclays e al lancio di prodotti dedicati anche da parte di Citigroup. Il Bond Connect fonde de facto le piattaforme on shore e off shore coinvolte nelle negoziazione dei bond trattati sul China Interbank Bond Market semplificando di molto l’investimento: si elimina ad esempio la necessaria interposizione di un onshore settlement agent (ma si accede direttamente con un dealer affiliato al China Foreign Exchange Trading System) e le quote previste per singolo investitore istituzionale sono annullate (che permangono ancora in parte nello stock connect) come pure la necessità di un deposito onshore. Secondo gli analisti di Goldman Sachs, si parla di potenziali investimenti internazionali per oltre 1000 miliardi di dollari che potrebbero riversarsi sul debito cinese nei prossimi dieci anni partendo da una condizione odierna che vede meno del 2% del mercato detenuto da investitori esteri. Focalizzandosi sul solo govenment debt, a maggior crescita ed oggi già in mani estere al 4%, il finanziamento estero si traduce in poco più di 100 miliardi di dollari rispetto ai 6000 miliardi di debito pubblico statiunitense in mani estere (su 14 000 miliardi di dollari complessivi) e ai mille miliardi di dollari piazzati fuori dai confini nazionali dai giapponesi (su complessivi 10000 miliardi di dollari di debito. Il debito è equamente diviso tra government, Policy Banks, corporate e commercial banks ma finora gli investitori non hanno mostrato grande interesse per la parte corporate. L’india non è molto lontana dalla Cina, per ora, con meno di 100 miliardi di dollari di bond governativi in mano a foreign investors. Le intenzioni di Pechino sono evidenti: il paese è consapevole del probabile rallentamento della crescita economica e dell’impatto dell’espatrio di capitali nel tempo, tanto in termini di crescita interna (mancati reinvestimenti) quanto per l'impatto sullo yuan, questo in grado di rendere insufficienti anche gli allettanti extra rendimenti (10yr bond yield oltre il 3%, 100 punti base oltre il decennale americano). Il downgrading incassato a maggio dall’agenzia Moody’s da A1 a Aa3 sul debito sovrano (anche S&P ha declassato il debito cinese a fine settembre) e su quello di 26 corporation controllate dallo stato stesso, il primo dal 1989, motivato dall’agenzia proprio argomentando circa la crescita eccessiva del debito stesso a fronte di misure correttive insufficienti, ha spinto le autorità cinesi a velocizzare ulteriormente i tempi. Se incoraggiare l’uso della moneta cinese da parte degli investitori internazionali è quindi un imperativo, facilitare l’accesso ad asset denominati in renminbi è il mezzo principale, oltre che una sorta di copertura contro i deflussi di capitale. In tal senso è stata fondamentale anche l’inclusione della valuta cinese a ottobre 2016 nel novero delle valute di riserva accettate dai paesi membri nell’ambito del IMF reserve currency system (peraltro da subito con un peso dell’11% che rende lo yuan cinese la terza valuta per peso relativo tra quelle considerate ), ma le iniziative cinesi non si sono certo fermate qui: a febbraio è stata introdotta la possibilità di currency hedging sfruttando il mercato locale dei derivati FX on shore. Anche l’apertura alle valutazioni di rating da parte delle agenzie proprio sui bond a partire da luglio è stata un segnale importante, finalizzato a infondere sicurezza negli investitori stranieri. Ci vorrà del tempo, probabilmente molto se si osservano le esperienze di altri paesi nel passato, ma la Cina ha dalla sua un enorme ed evidente potenziale interno, una rivoluzione economica guidata e vitale, mercati finanziari come mai prima d’ora interconnessi e caratterizzati da nuove tipologie di investimento come ad esempio gli ETF, che, per le loro caratteristiche e per la loro rapida espansione, sono uno dei modi più rapidi per attirare risorse. E proprio l’inclusione di questi bond on shore nei principali indici globali emerging e world, sottostanti anche agli Exchange Traded Funds più blasonati, è lo step successivo, (che avverrà presumibilmente a spese di economie più deboli e senza le medesime prospettive). A marzo gli indici Bloomberg Barclays si sono ampliati con due prodotti sul debito cinese RMB-denominated destinati ad affiancare i tradizionali world bond e emerging bond indexes: Global Aggregate + China Index include bond governativi cinesi (CGBs) e le emissioni obbligazionarie delle tre Policy Banks cinesi mentre Emerging Market Local Currency Government + China Index solo le emissioni governative. Bloomberg è stato il primo index provider ad inserire i bond cinesi in indici specifici anche se la mancata inclusione della Cina nel suo indice principale, il Bloomberg-Barclays Global Aggregate Index, va letta, come lo stesso provider non manca di specificare, anche come un segnale di prudenza circa i tempi e i modi con i quali l’effettiva apertura del mercato cinese on shore saprà conquistare una fetta rilevante dell’investimento globale. Tra i tre principali bond indexes globali figura anche il Citibank World Government Bond Index . Citi ha mostrato la stessa considerazione per il mercato dei bond onshore cinesi ma anche la stessa prudenza del competitor. Infatti, Citi, pur non inserendo le emissioni cinesi nel più importante Citi World Government Bond Index nella sua versione base (che rimane dunque a 23 paesi) ha introdotto, insieme alla nuova versione specificatamente “developed markets” del celebre indice, anche il Citi World Government Bond Index – Extended che ricomprende il paese asiatico come anche la Corea del Sud e, in prospettiva da dicembre 2017, Israele dopo che questi paesi hanno soddisfatto per tre mesi consecutivi i requisiti necessari all’inclusione. Pechino entra con i suoi bond governativi e interbancari anche nelle versioni regionali ossia negli Asia Government Bond Indixes - Extended del gruppo americano e nel dettaglio nei Citi Asia Government Bond index, Citi Asia Pacific Government Bond Index e il Citi Emerging Markets Government Bond Index . A seguito dell’evidente e prevedibile preminenza dei bond di Pechino negli indici, il provider ha introdotto contestualmente delle versioni capped del EMGBI in cui la Cina vede limitato il suo peso al 10% e una del AGBI nella quale il paese raggiunge il massimo consentito al 20% del totale. La famiglia degli indici Citi è destinata ad ampliarsi anche per quanto attiene i dedicati Onshore Chinese Bond Index family: Citi Chinese Government Bond Index e Citi Chinese Government and Policy Bank Bond Index saranno affiancati da due nuovi indici sempre in valuta locale, il Citi Chinese (Onshore CNY) Broad Bond Index (partito ad agosto 2017), che tra le varie asset class e settori include anche una componente corporate, e il Citi Chinese (Onshore CNY) Broad Bond Index – Interbank, un sotto in dice del precedente disponibile a partire da settembre 2017. Neppure il JPMorgan Government Bond Index – Emerging Markets , che insieme ai due visti sopra rappresenta la triade di top bond indexes globali, ha visto l’inclusione dei titoli di debito cinesi nella sua versione più restrittiva (naturalmente la Cina è presente nella versione Broad, ad esempio), ma questi, restano comunque sotto osservazione da almeno un anno: secondo alcuni analisti questi bond peserebbero per il 40% dell’indice. Una delle ragioni principali per le quali si è evitato l’ingresso del gigante asiatico negli indici “che contano” consiste nel timore di “costringere” gli investitori ad entrare in possesso anche di questi titoli; si è optato dunque per dar loro piuttosto “una possibilità” di investimento, un’ alternativa in attesa di osservare il reale appetito per questi bond. La pressione sui provider è comunque forte: solo dal febbraio 2016, ossia dall’apertura del mercato interbancario all’investimento straniero, nonostante le limitazioni, i flussi in ingresso sono aumentati di oltre il 50% . I tre maggiori indici bond globali visti sopra sono tracciati per almeno 4 000 miliardi di dollari, molto più di quanto accade per MSCI Emerging Markets, e, pertanto, ci si aspetta che l’inclusione negli stessi, prevedibilmente entro massimo due anni, dovrebbe avere un impatto per la Cina molto maggiore di quello registrato con l’inclusione negli equity indexes. La crescita dei bond ETF, al massimo storico in questa prima metà dell’anno, nonché il boom previsto per i prossimi anni dovrebbero dare ulteriore slancio alla richiesta. Ma il mercato ETF è destinato a crescere anche grazie al maggior ricorso agli stessi proprio da parte degli investitori dei paesi emergenti, cinesi in primis. Da gennaio ormai si parla di estendere l’impianto “ Stock Connect “anche alla la strumentazione ETF, collegando quindi Hong Kong alle borse della Cina continentale: Hong Kong, diventerebbe per gli ETF il primo centro asiatico per capitalizzazione (oggi con 37 miliardi di dollari è seconda solo a Tokyo) offrendo una grade varietà di opportunità agli investitori cinesi che, alla ricerca di diversificazione per i propri portafogli, starebbero proprio guardando agli ETF e ai listini del sud con sempre maggior interesse aprendo anche miglia di conti trading proprio in questi mesi. Con quello che viene genericamente identificato come “ETF Connect”, infatti, la clientela continentale potrebbe investire liberamente anche sugli oltre 140 ETF attualmente quotati nell’ex colonia britannica e i benefici sarebbero evidenti anche per investitori e AM occidentali. Sulla piazza di Hong Kong quotano naturalmente i prodotti dei principali asset manager mondiali, da iShares a Vanguard, da SSGA alla gamma X-trackers ma anche Amundi ed emittenti locali come Hang Seng, Mirae BOCI, China Universal AM, Ping an of China AM, solo per citarne alcuni. Si tratta di un mercato tutt’altro che diversificato quanto ad alternative di investimento ( per la stragrande maggioranza equity asiatica con 148 prodotti fisici e 8 sintetici) ma che comunque offre maggiori alternative rispetto ai listini di Shenzhen e Shanghai dove gli emittenti stranieri sono quasi assenti. Stock Connect e Bond Connect sono comunque l’output di anni di interventi mirati anche da un punto di vista normativo, e ,purtroppo, quando si parla di prodotti ibridi tra fondi comuni e equity come appunto gli ETF, non sono poche le zone d’ombra nell’impianto normativo cinese: buona parte delle discussioni in atto si concentrerebbe proprio sulla valutazione di queste peculiarità dello strumento, se vada cioè considerato equity o fondo d’investimento: in quest’ultimo caso il numero di prodotti immediatamente disponibili sarebbe ancora più ridotto.. Va constatato anche che ad oggi la scarsità di proposte quotate è tale che, anche a borse unificate, l’effettivo salto di qualità in termini di diversificazione avverrebbe solo a mezzo di un conseguente immediato allargamento dell’offerta da parte degli AM occidentali. In Cina sperano di portare a compimento l’ETF Connect entro l’anno in corso. Intanto, solo il 3 luglio due Policy Bank cinesi Agricultural Development Bank of China and China Development Bank, hanno provveduto a maxi emissioni di nuovo debito per un valore complessivo di oltre cinque miliardi di dollari indirizzati sia agli investitori on shore che a quelli offshore proprio grazie al Bond Connect. Sempre più diffuso è anche il collocamento nella Cina continentale di bonds emessi da entità estere ( ad esempio di recente la Polonia, l’Ungheria e il Portogallo) e denominati in yuan, i noti “Panda Bonds”, le cui sottoscrizioni sono aumentate nel paese asiatico da 10 miliardi di dollari nel 2015 fino ad oltre 120 nel 2016 (e continuano ad aumentare in questa prima parte del 2017). Tutte queste emissioni saranno fonte di ulteriore diversificazione nel mercato interno oltre che uno stimolo per la valuta locale. Il mercato Cinese sta cambiando, e lo sta facendo più in fretta di qualunque altro. Sarà sufficiente?


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