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L'ultimo sorriso



E' una giornata come tante altre, a Phoenix, Arizona. Una giornata come tante altre, come in tutto il resto del mondo. Gente che si sveglia presto la mattina, per raggiungere il posto di lavoro e guadagnarsi da vivere. Anziani che osservano con attenzione il flusso dei lavoratori, e si abbandonano ai ricordi – ricordi che hanno il sapore agrodolce di un tesoro vissuto e svanito. Bambini che camminano e, sorridenti, si preparano alla vita. E altri bambini, tali e quali a loro, che non possono guardare all'orizzonte, né cercare l'oro alla fine degli arcobaleni, né giocare a progettare giocosamente un futuro. Non lo possono fare perché la loro vita sta per finire.

Il piccolo Kobe ha cinque anni. Si trova in un ospedale di Phoenix, Arizona. Non è lì per una normale malattia infantile, no: tutt'altro. E' un malato terminale. Ha un malfunzionamento cardiaco ed è troppo fragile per sopportare un trapianto. Il suo fisico non lo sopporterebbe. A tenerlo in vita è una macchina. Per lui non c'è cura: ogni singola ora, ogni singolo minuto di ciò che resta della sua vita sono come uno scrigno dal valore inestimabile, da abbracciare e custodire con cura e cautela.

Kobe sa di non avere tanti giorni davanti. E' triste, malinconico. Ma la sua capacità di sognare è intatta, come quella di ogni altro bambino. Gli piacerebbe molto ricevere un regalo speciale: un qualsiasi oggetto dei Los Angeles Lakers autografato da un giocatore. Meglio ancora se a metterci la firma, e magari la dedica, potesse essere il suo campione preferito: quel Kobe Bryant con cui il piccolo condivide il nome.

Il cardiologo pediatrico del bimbo si muove per esaudire il suo sogno. Interpella una collega, la dottoressa Kristen O'Connor Hecht, che ha un'entratura speciale: suo marito Tom è responsabile marketing dei Phoenix Suns, che a breve ospiteranno i Lakers per una partita di campionato. Kristen chiede a Tom di adoperarsi, di fare il possibile per ottenere un gadget per il piccolo Kobe. E' pessimista, però: pensa che l'impresa sia molto difficile.

Così, quando il giorno seguente il marito le dice che la cosa si farà, Kristen è entusiasta. Immagina già il sorriso del bimbo, nel vedere una maglietta, o una palla da basket dei Lakers. Magari con la firma di quel fuoriclasse per cui è stato scelto il suo stesso nome.

Ma Tom le spiega che non porterà il materiale sportivo in ospedale: a farlo sarà Kobe Bryant in persona. Vuole vedere il bimbo, vuole stare un po' con lui. Kristen è incredula: non sperava neanche in una palla, figurarsi nell'arrivo della stella dei Lakers.

E invece è proprio così. All'indomani, Bryant arriva in limousine, senza sicurezza, senza seguito. Solo, in incognito. Lui, Kobe la leggenda, scende dall'auto ed entra in ospedale. La visita è riservata: nessuno lo deve sapere: ne sono informate solo le poche persone che sono parte di questo progetto. Insieme a Kristen e Tom, il campione sale frettolosamente la scala e raggiunge il reparto di cardiologia pediatrica di terapia intensiva. Entra nella camera del bimbo. E il bimbo lo vede entrare.


Il bimbo lo vede entrare e sorride. La nebbia fitta si è inaspettatamente diradata e improvvisamente, nel cuore del piccolo, irrompe il sole. Il grande Kobe inizia a fare ciò per cui è famoso tutto il mondo: giocare a basket. Passa il pallone al piccolo Kobe e se lo fa restituire. Glielo ripassa, e glielo ripassa ancora, Giocano insieme. L'intesa è perfetta: il bimbo è felice e lo è anche il campione. Tra i due c'è complicità, lo si vede a occhio nudo. La madre assiste a questo spettacolo con sorrisi e risate di felicità. Il cardiologo non crede ai suoi occhi.

Il bimbo è ora come un compagno di squadra della stella Nba. Si sente legato a lui – non solo dal nome, ma da qualcosa di veramente speciale. Sente che il grande Bryant è improvvisamente diventato un suo amico, e lo è davvero. La sua non è una semplice visita di cortesia – il che sarebbe già una gran cosa: è molto di più. Il mondo non lo sa, ma per Kobe Bryant non è la prima volta. Lui, queste visite, le fa regolarmente. Solo, non suona le trombe. Anzi: non vuole, per la maniera più assoluta, che questo filtri all'esterno.

Deve restare tutto dentro, lì, nella camera. E' un momento di intimità. E' il momento in cui Kobe la stella Nba, uno dei migliori cestisti di sempre, diventa semplicamente Kobe l'adulto che è tornato bambino, Kobe il "fratellone" che fa divertire Kobe il "fratellino". Giocano e si divertono. Insieme.

Bryant si ferma un'ora, e lascia al piccolo omonimo molti oggetti autografati. Posa con il bimbo per varie fotografie. Sorridono, tutti e due. Felici.

Poi il campione torna alla limousine. Prima di salire, chiede a Kirsten se può essere d'aiuto. Le domanda se è un problema economico, si offre di prendersi carico di qualsiasi cura per guarire il bimbo. Di finanziare l'intervento, le terapie. Purtroppo non è possibile, risponde Kirsten. Non c'è cura conosciuta.


Una settimana dopo, il piccolo Kobe muore. La madre scrive alla dottoressa, le scrive una lettera piena di dignità e di gratitudine. Le dice che il campione ha regalato allo sfortunato bimbo il giorno più bello della sua vita. E qualcosa di cui essere felice, nei suoi ultimi giorni che ha potuto trascorrere su questa terra.

Per chi ha voluto bene al piccolo, gli scatti presi quel giorno sono un'eredità inestimabile. Non sono solo l'immagine di un bimbo con il suo sogno. Sono anche le uniche fotografie che lo vedono sorridente. Raggiante, come quel sole che, all'improvviso, si era riversato nella sua stanza d'ospedale. Quel sole che aveva diradato la nebbia, permettendo al piccolo Kobe di sperimentare il confortante calore dei suoi raggi. Ed è più facile ricordarlo così, il piccolo Kobe. Con il suo ultimo sorriso.


Maurizio Giuseppe Montagna

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